Dante si sta rivoltando nella tomba? Lingua e linguaggio di oggi secondo Antonina Nocera

(di Dario Villasanta)

La lingua cambia, e il linguaggio pure. Due cose diverse ma uno parte dell’altra, e viceversa. Da cent’anni, nelle scuole, ci insegnano una grammatica e un vocabolario, poi scopriamo che, a un certo punto della vita, iniziamo a parlare e scrivere in modo diverso l’uno dall’altro e non ci si capisce più, pur usando lo stesso idioma. Sarà colpa delle inflessioni dialettali? Sarà colpa della scuola? O sarà la barbara gergalità giovanile a deturpare la nostra nobile e poetica lingua? Ma soprattutto: Dante si starà rivoltando nella tomba? Forse no.

Ho chiesto lumi in merito a chi di lingua italiana – e non solo – ne capisce, la ricercatrice e critica letteraria Antonina Nocera, cultrice e studiosa di Dostoevskij (giusto uno sconosciuto… ) che è anche insegnante nelle scuole superiori, pertanto secondo me rappresenta un ponte ideale tra due mondi paralleli di linguaggio: quello di ieri e quello di domani, passando per quello odierno che, complici i social, fa spesso discutere e porre delle domande su quale sia il confine, appunto, tra lingua e linguaggio dei nostri tempi, che cambiano forse più velocemente di quanto eravamo preparati ad accettare.

Innanzitutto benvenuta Antonina e grazie per il tuo apporto. Partiamo con la tua definizione di linguaggio e, soprattutto, dove inizia e dove finisce il suo legame con la parola, intesa in senso stretto.

Grazie a te per avermi coinvolto. Inizio col dire che la domanda che mi poni è tra quelle su cui forse maggiormente si è dibattuto nel secolo scorso. La suddivisione tra linguaggio e parola viene codificata da de Saussure nel suo Corso di Linguistica generale nel 1916. In breve, il linguaggio è un sistema di lemmi o vocaboli che formano il nostro vocabolario, la parola è l’atto di enunciazione che presuppone un soggetto, una comunità di parlanti, etc. La parola per così dire vive all’interno di relazioni e da queste riceve le sue immense modulazioni.

Mi piace arricchire questo discorso con la citazione di un libro che ho letto ultimamente e che mi sembra interessante per capire il ruolo e la funzione della parola. È un libro di una scrittrice giapponese, Yoko Ogawa, “L’isola dei senza memoria”, inquadrabile nel genere distopico di cui possiede tutti i topoi, ma la trama è piuttosto originale: in un’isola gli abitanti perdono progressivamente la memoria prima degli animali, poi gli oggetti della vita quotidiana, a seguire le fotografie e i libri. Se una cosa non viene ricordata, non esiste più. Un punto cruciale di questa discesa nell’oblio generale è proprio la progressiva perdita delle lettere dell’alfabeto, la gente fa sempre più fatica ad avere una socialità, un raccordo con il passato. Ecco mi sembra che qui si faccia riferimento a questa dimensione della parola, in qualche modo quella relazionale, che vive nel tempo, che si trasforma e che “nomina” le cose.  Per fortuna questi gap relazionali spesso si possono superare con il ricorso alla gestualità, in  cui noi siciliani e in genere italiani siamo maestri.

Ogni epoca ha il suo linguaggio. Il nostro è diverso da quello dei nostri genitori, i ventenni ne hanno un altro diverso dal nostro, e via risalendo. Oggi la comprensione di un messaggio passa attraverso la connessione WEB e social, e ha indubbiamente delle caratteristiche tutte sue rispetto al parlato. Quando è avvenuto questo cambiamento e qual è stato, secondo te, lo spartiacque – l’avvenimento o l’insieme di avvenimenti – che ha sancito tale passo?

Antonina Nocera presenta un libro a ‘La via dei librai’

Penso che lo scarto generazionale sia legato allo sviluppo della virtualità in primo luogo. Ogni lingua è continuamente soggetta a cambiamenti e modificazioni specie nei cosiddetti assi di variazione. Il linguaggio giovanile, il gergo e alcune neoformazioni che riguardano soprattutto la parola scritta e che sono legate alla scrittura digitale, hanno forzato in un certo senso i rapporti tra significante e significato che si ritrova nell’unità del segno linguistico. Porto un breve esempio; il nesso ‘ch’ che viene sostituito dalla ‘k’ non produce differenze a livello fonico, ma ha delle precise ricadute nella scrittura veloce tipica degli SMS, della messaggistica istantanea in generale. Il vero problema sono gli errori ortografici di ritorno, cioè quegli strafalcioni che poi intervengono nella scrittura sorvegliata o, per rimanere al mondo dei giovani, nei temi.   

Per le nuove generazioni la lingua è un fatto plastico, sono i giovani a coniare nuove parole, a generare neologismi , spesso importando  parole straniere con formazioni di derivazione tipo “folderare”.

Personalmente, a volte ho l’impressione di essere spinto verso l’uso di una specie di grammelot moderno, ovvero un linguaggio volto a dare una percezione che va oltre le parole (che è poi il motto del nostro sito). Vuoi darmi un tuo commento su questa riflessione, e magari approfittare per spiegare cos’è il grammelot a chi non se lo ricorda o non lo conosce?

La lingua è in continua evoluzione. Ha peraltro potenzialità espressive vastissime: il grammelot , come hai anticipato tu, è un costrutto di parole onomatopeiche, di fonemi che valgono solo per il loro effetto musicale. Non a caso è la tecnica teatrale in cui eccelse Dario, Fo grande strumentista della voce. Un suo analogo musicale è lo scat nel jazz,  virtuosismo vocale che riproduce un fraseggio spesso molto articolato.  Se parliamo di espressività della lingua mi piace citare anche due esempi di scrittori che hanno portato all’estremo le potenzialità fonico semantiche delle parole: una è la poesia metasemantica di Fosco Maraini,  ‘Il  Lonfo’, un esperimento di lingua artificiale tutta basata su effetti uditivi; oppure il racconto di Landolfi ‘La Passeggiata’ in cui vengono enumerate parole desuete, di un registro aulico o arcaico, lontane dal linguaggio standard : “La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima” .Sono chiaramente esperimenti linguistici che dimostrano come l’atto comunicativo possa essere multiforme e , come in questo caso, una sorta anche di riflessione sull’esigenza di giocare con le parole, sul loro presunto statuto oggettivo e descrittivo.   I bambini sono naturali utilizzatori e produttori di un linguaggio del tutto particolare fatto di suoni e di parole basilari sin dall’ età della lallazione.

Tra i linguaggi ricorrenti nella vita di ciascuno, ce ne sono due in particolare su cui voglio un tuo pensiero. Quello politico e quello giuridico, sia civile che penale. Sul primo, viviamo ancora la dicotomia tra quello ufficiale, detto volgarmente ‘politichese’, e quello ufficioso e cioè, i discorsi o proclami trasmessi via social, o nelle piazze. Sul secondo, ricordo un’intervista a Montanelli (che era laureato in Giurisprudenza se non erro) in cui lesse un passo di una legge di cui non si capiva nulla, e alla fine chiese lui al giornalista: “Ecco, ora mi dica lei se questo articolo di legge è stato scritto da un un ignorante, o da un furbo.”. A te la parola.

Antonina Nocera a Racalmuto per un convegno su Sciascia nel trentennale della morte, con Nino Arrigo e la Professoressa Domenica Petrone

Beh, il politichese è stato creato per arrivare ad un pubblico ampio, alla “massa” indistinta con un linguaggio artificioso e tecnico, ma di poca utilità ai fini della partecipazione comunitaria. Una sorta di oppio dei popoli nel versante della comunicazione.  Credo che sia un impasto linguistico deleterio, una sorta di farcia senza tacchino, mi si passi la metafora satiro- gastronomica che mi piace sempre usare quando si parla di fatti di politica.

Penso al politichese come la frangia ultima e degenerata dell’antica ‘ars oratoria’, a sua volta debitrice della retorica greca. La differenza sostanziale è che, come ricorda Cicerone nel ‘De oratore’, per essere un ottimo uomo politico bisogna possedere svariate qualità e competenze, uno studio accurato della retorica, della filosofia e di tutte quelle pratiche e  discipline che formano il perfetto oratore. Mi pare che la distanza col mondo attuale sia abissale .

Per chiudere il discorso, dobbiamo dunque chiederci dove va la scuola in tal senso. Se una volta si obbligava a leggere il Manzoni come esempio di buona lingua italiana, oggi forse ha meno senso e dovremmo pensare ad altre opere? E se sì, a quali penseresti se dipendesse da te?

La questione della buona lingua è oggi superata a favore di un aggiornamento sul modello della lingua standard.  Mi spiego: se  i modelli di riferimento erano i testi letterari in toscano e se  fino al Manzoni, come mi sembra tu voglia suggerire, si rese necessaria la risciacquatura in Arno affinché l’opera letteraria potesse parlare  a un pubblico più vasto, oggi la lingua standard si deve confrontare con una serie di molteplici varianti che riguardano sia la comunità di parlanti che le naturali modifiche del parlato rispetto allo scritto. Per quanto mi riguarda, i classici sono ancora dei buoni strumenti per farsi un’ossatura (leggere bene per scrivere bene sarà un luogo comune, ma contiene una grande verità).  Da Melville a  Flaubert e Dostoevskij,  e non dimentichiamoci di una lingua che sembra lontana da quella che parliamo , quella di Dante, ma che sprona a un esercizio filologico e semantico costante. Spesso infatti le carenze riguardano il lessico, sia come bagaglio personale, che come conoscenza del significato delle parole che risulta approssimativo e intuitivo.  Poi la nostra letteratura contemporanea  è piena di autori (da Moravia a Pavese, Pasolini ,Sciascia solo per citarne alcuni)  che andrebbero letti anche  perché hanno usato una lingua piana, comprensibile, aderente alle cose e ai fatti.  E poi a ciascuno il suo, basta che si legga.

Chi è Antonina Nocera:

Antonina Nocera è scrittrice, ricercatrice, saggista e critica letteraria. Vive a Palermo dove svolge la professione di insegnante di scuola secondaria superiore.

Ha pubblicato una monografia dal titolo “Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij (Franco Angeli, 2010), e “Metafisica del sottosuolo – Biologia della verità fra Sciascia e  Dostoevskij (Divergenze, 2020) oltre a svariati articoli su riviste come Kaiak-A philosophical Journey, Il Maradagàl,  Kainos.  Un suo racconto si trova nella raccolta “ L’ultimo sesso al tempo  della peste” a cura di Filippo Tuena, (NEO edizioni 2020) .

Gestisce il blog letterario Bibliovorax ((www.bibliovorax.it )  dal 2016 dedicato alle recensioni e interviste di autori contemporanei.

Scrive per una rubrica dedicata alla divulgazione dei classici della letteratura russa sulla pagina Cultura Italia-Russia.

 

 

 

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