Le persone istruite si sopravvalutano

(di Dario Villasanta con Davide Pappalardo)

 

Siamo scrittori, siamo colti e siamo social! Quindi intellettuali, che però è termine da rigettare per principio, ché fa tanto uno snobismo che non vogliamo, vero? Vero, e noi vogliamo essere vicini al popolo, la cultura è cultura ed è per tutti, vero? Però allora, e allora che cazzo: “perché leggono sempre meno persone?”,Perché le presentazioni sono deserte?” e se ci sono venti persone è un successo da mettere su Facebook? E via con “che popolo di ignoranti!”, “Quello ha sbagliato il congiuntivo!”, “Tutti scrittori ma nessuno che legge!” e balle varie.

Fermi tutti, eroi della Crusca. Noi non siamo proprio nessuno, e sapete perché? Perché non sappiamo neanche cosa voglia dire la parola Cultura, anche se ce ne riempiamo la bocca o, ancora peggio, l’ego, convinti come siamo di essere una razza superiore. E sento già innalzarsi ai cieli latrati d’indignazione (sì, latrati) per il mio reato di lesa maestà,  purtuttavia vi invito a leggere la motivazione che segue (a proposito, c’è ancora qualcuno che usa di sua sponte ‘purtuttavia’? Nda).

Finché la cultura non viene vissuta e coltivata nelle periferie, nelle povertà del quotidiano di ogni povero cristo di questa terra, finché non viene insegnato ai ragazzi di quartiere, delle prime superiori e di chi non va neanche a scuola, di chi non parla  l’italiano a casa, di chi pensa che lavorare con la penna sia solo roba da studiati, di chi parla come mangi!, di chi si fa bullo o aggressivo perché cioè, io vengo da ‘a strada , a quelli che se parli italiano “fai troppo l’intellettuale!” (e  magari te corcano de botte solo per quello!) insomma: se la cultura non è fruibile come bene necessario a tutte queste persone, che  avrebbero più bisogno di sapere quanto può valere, in termini concreti, avere e fare cultura, allora la stessa non vale niente. Perché non sarà Cultura, tantomeno la nostra.

La nostra di chi, mi si chiederà? Bella domanda, anzi è LA domanda. Risposta:

La cultura di chi “io ho studiato!”, “io leggo i giornali”,io sono … (e via titoli professionali) e di chi, perché ha conosciuto o conosce scrittori famosi, crede  di capire della vita più di altri, o più di quanto ne capiscano in realtà. Un po’ come se una velina pretendesse di capire di calcio solo perché è andata a letto con un centravanti.

E allora ricominciamo dalla parola cultura.

cultura s. f. [dal lat. cultura, der. di colĕre «coltivare», part. pass. cultus; nel sign. 2, per influenza del ted. Kultur]. – 1. a. L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo

Avete capito bene cosa c’è scritto? Secondo me no, ma siccome io faccio poco testo, sapete come la risolviamo? Chiediamo a uno scrittore, uno di estrazione borghese e che sa bene la lingua, il motivo per cui noi imparati siamo in realtà degli ignoranti più ignoranti di altri. Davide Pappalardo, sei in linea? Ben ritrovato.

Sorvolando sull’analfabetismo funzionale e la quantità di informazioni di cui disponiamo, quanto è vero oppure no che siamo più ignoranti di prima, in un certo senso? Per dirla con un esempio: com’è concepibile che nel 2020 si stia disimparando a comprendere un testo complesso?

Intanto una precisazione: non sono un intellettuale, non perché dirlo fa snob ma perché non ne ho la caratura. Ammetto che mi piacerebbe esserlo, ma sono pigro e di intelligenza media. Non  ho lo spessore morale né la tensione etica, né tantomeno le doti per farlo.

La mia forse sarà quindi una risposta banale ma è la mia risposta. Non ne ho altre. E poi non dobbiamo per forza cercare chissà quale profonda illuminazione su certi aspetti del nostro vivere. A volte la questione è sotto i nostri occhi e ci sfugge perché non vogliamo vederla.

Probabilmente oggi diamo per scontato tutto. Compresa la nostra intelligenza e la nostra preparazione. La nostra è la cultura dell’impazienza, della velocità, dell’esserci a tutti i costi. In fin dei conti della superficialità e dell’apparenza. La cultura è invece anche sudore, va conquistata ogni giorno, passo dopo passo. Oggi dobbiamo dimostrare di esserci su tutto e a poco a poco, ci siamo convinti di sapere tutto e dobbiamo mettere becco su ogni questione. Invece qualche volta – e anche spesso – possiamo e dobbiamo tacere, o dire non lo so. Magari se quell’argomento è importante o ci interessa dovremmo andare ad approfondire e a studiare. Dovrebbe funzionare così e invece per essere cool e competitivi dobbiamo sapere tutto (o far credere di sapere tutto), senza in realtà sapere nulla. Dobbiamo invece saperci prendere il tempo che serve. Riappropriarci della lentezza, della voglia  di assaporare le cose, del gusto e dell’efficacia del tempo giusto che ci serve per capire e assimilare. E’ certamente un processo faticoso.

Questa fretta, questa poca costanza, questa mancanza di concentrazione, questo voler essere sempre sul pezzo su tutto, a mio avviso, sono il motivo per cui non riusciamo a comprendere non tanto un testo complesso quanto persino un testo semplice. Scorriamo con velocità, sputiamo la nostra bile e passiamo subito ad altro. Con presunzione e arroganza.

Dov’è quindi che siamo più ignoranti di quello che pensiamo, e perché?

Spesso mi trovo inorridito di fronte di fronte a certe affermazioni di chi punta l’indice sull’ignoranza e che propongono come soluzione di togliere il suffragio universale (io sarei uno di quelli, ma pazienza. ndDario). Posso capire il malessere di fronte alle bufale spacciate ogni giorno, il sentirsi diversi dal livore imperante, ma credo dietro questo pensiero ci sia  anche altro. Forse noi “colti” abbiamo paura. Abbiamo paura ad aprirci, a far sì che altri sappiano, al venir meno del nostro essere “depositari” della verità.

Forse la verità è che la cultura non è democratica anche se dovrebbe esserlo. Le persone istruite spesso si sopravvalutano, alcune pensano di avere una missione, di essere gli eletti. Ma la vera missione che dovrebbero avere questi “eletti” è quella di diffondere il loro sapere, trasmetterlo, costruire i luoghi e le possibilità perché si rimanga contagiati dalla cultura. L’atteggiamento giusto non è certo quello di accomodarsi su una poltrona adagiata su una torre eburnea e guardare dall’alto verso il basso gli “altri”. La domanda da farsi è questa: cosa facciamo noi per superare le differenze e per trasmettere la conoscenza? Costruiamo dei ponti di cultura o ne tagliamo ogni possibilità di costruzione con il rifugiarci nelle nostre tribù e nelle prigioni dorate dei nostri salotti virtuali?

La conoscenza oggi non è più contemplata come parte dell’ascensore sociale che per decenni ha caratterizzato la nostra società. Colpa della scuola, colpa degli intellettuali, colpa di Internet, colpa di chi?

Su questo punto fammi essere un po’ vetero e fammi tornare indietro. Il PCI parlava alle masse. E lo faceva certamente con un linguaggio semplice, ma non appiattito. Portava gli operai e i braccianti in parlamento. Faceva studiare. C’erano le riunioni di sezione, le scuole di partito, c’erano i consigli comunali in cui fare gavetta, c’era il sindacato che faceva il suo mestiere. Tutto questo costringeva anche gli altri partiti a confrontarsi, a studiare, ad argomentare. Partiti, sindacati, movimenti si scontravano sulla base di valori e riferimenti diversi ma comunque di progetti studiati. Quando a Bologna nel 1956 il sindaco comunista Dozza e il PCI si preparavano a una  nuova vittoria alle amministrative vennero sfidati da Dossetti, che si contrappose loro con un piano dettagliato e che parlava alla società. Perse ma fu una contesa tra due progetti di città e non una guerra di slogan.

Oggi tutto questo non c’è più. E’ colpa di chi l’ha lasciato cadere, per fare posto alla modernità, al nuovo che avanza (o che avanzi!).

La TV commerciale ha spianato la strada a certi meccanismi distorti, al leaderismo, Gelli ha compiuto la sua missione e chi doveva opporsi non lo ha fatto, o lo ha fatto con poco mordente subendo l’egemonia culturale dell’avversario.

Io aggiungo un ricordo, quello di mio padre alle riunioni notturne e fumose nella sede del Partito Socialista in cui credeva (e per cui adesso si starà rivoltando nella tomba) e a quando gli domandai: “Papà, ma cosa vuol dire quel simbolo sulla bandiera rossa?” Era un libro che sosteneva la falce e il martello, prima che venisse sostituito dal garofano. Mi disse: “E’ il simbolo più bello che c’è: la cultura che sostiene il lavoro e viceversa. Perché nessuna persona senza cultura può aspirare a vivere secondo i suoi meriti.”

Altri tempi, altre idee, altra realtà. Ah, e mio padre a diciott’anni era finito sulle panchine a dormire, di giorno lavorava e di notte studiava. Per chi avesse da recriminare un classismo che non c’è, per inciso.

E Davide Pappalardo, in privato e a inizio conversazione, mi ha detto chiaramente: “Ma io sono un borghese, come faccio a sapere come si trasmette la cultura alla gente di periferia?”

Hai centrato il problema però, caro Davide, ma nessuno se lo è più posto da un pezzo. È per questo che ho intervistato te. Tu l’hai fatto, gli altri no. Le altre domande fatevele voi.

 

 

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