(di Dario Villasanta)
Con sette milioni e mezzo di italiani indigenti, parlare di libri può sembrare un inutile vezzo. Ancor più se si pretende di ‘insegnare’ la povertà attraverso i libri. Io però vado controcorrente, e dico: ‘perché no?’
Mi spiego meglio.
Chissà quanti di noi hanno avuto genitori, chi per un motivo chi per l’altro, che ci spingevano a lasciare gli studi per andare a ‘imparare un mestiere’ (idraulico, muratore, elettricista ecc.) perché ‘tanto leggere non serve a niente’?
Io per esempio ho avuto una madre così.
Ma quando si prospetta la povertà, il disagio e in extremis la fame, chi ha letto molto ha più possibilità di sopravvivere, e questo purtroppo pare sia un paracadute dimenticato dai più, salvo poi vedere gli stessi genitori che ti volevano in cantiere a sedici anni inchinarsi al cospetto di tutti i dottori, avvocati e commercialisti che conoscono, portando loro il più servile rispetto.
Lo spauracchio della povertà in realtà lo conosciamo ben da prima della crisi odierna, perché ce l’hanno insegnato i libri che abbiamo letto. Ed è per questo che in tanti abbiamo deciso di continuare a studiare, o quanto meno a leggere.
Potrei citare come summa di tutti i discorsi possibili sull’argomento ‘I Miserabili’ di Hugo, ma sarebbe troppo facile. E neppure ‘Fame’ di Knut Hamsun saprebbe chiudere il discorso, per quanto descriva in maniera quasi tangibile la condizione di chi non ha davvero da mangiare, e per la fame sacrifica anche la dignità, che è poi quello che facciamo noi molto spesso in realtà quando ci pieghiamo a imposizioni assurde pur di non perdere – o di trovare – un qualsiasi lavoretto che ci consenta di comprare il pane, anche se a costo di vessazioni e sfruttamento.
Se non mi bastano a spiegare come si impara la povertà, come concetto, è perché questi libri non sono di certo stati letti dai giovani di oggi. Non per colpa loro, ma per colpa nostra che li abbiamo dimenticati , altrimenti avrebbero un’arma in più per capire il loro mondo.
Meno male che ci sono altri libri, o generi, che raccontano la realtà senza veli o pietà, seppur con troppi romanticismi. Parlo del Noir, che più del giallo racconta una realtà che chi legge nella sua bella casetta, al calduccio sul divano, non può e non vuole conoscere. Prenderà come finzione anche la Parma descritta più volte da Valerio Varesi nelle storie del suo commissario Soneri, una città reputata il migliore dei mondi possibili dove però esiste una comunità di poveri, di disagiati ed emarginati che fa paura prima che pensare.
Bellissimo il ritratto di un certo Sbarazza, un nobile decaduto che vive come un clochard ma tenendo alla sua dignità: mangia gli avanzi nei ristoranti chic, conosce il bon-ton ed è un perfetto interlocutore di Soneri, a cui insegna pure qualcosa discettando di filosofia. Per esempio, come si vive insegnando agli stranieri come procurarsi il cibo gettato dai supermercati e farne un banchetto, e in cambio brigare per loro, o insegnargli a farlo, le pratiche più ardue che sono obbligati a espletare per essere in regola con la nostra burocrazia.
Ecco, oggi noi viviamo peggio di Sbarazza. Se un italiano resta per strada, per fallimenti, truffe o botte della crisi, le istituzioni non saranno di certo un aiuto, come invece ci vogliono fare credere.
Non pensate che la povertà sia così romantica, al contrario. La povertà puzza, è cattiva ed egoista. Perché ci si azzuffa per un mozzicone di sigaretta, una scatoletta recuperata o un pezzo di focaccia gettato via dietro la bottega.
Ma la crudeltà maggiore si incontra accanto a noi: il disprezzo della gente, se non mera paura, quando siamo poveri.
Una volta essere poveri non era una colpa, era una situazione. E ci si aiutava.
Oggi, se vi capitasse di rimanere senza soldi e cibo in centro città e chiedeste da mangiare, vi passerebbero tutti sopra schivandovi come si fa con la peste.
Chi vi schiva non ha mai letto Hamsun, né Hugo e neppure Valerio Varesi con tutti i suoi epigoni. Potrei citare tanti altri autori, ma sarebbe solo una ripetizione.
Dalla miseria nascono i drammi, oltre che i fiori più profumati. Non la penso come Michele Serra, non credo che i ceti bassi siano la rovina della società, anzi: sono il serbatoio da cui attingere per pescare personalità forti e determinate, utili al nostro Paese che vive governato da millantatori e scansafatiche vari, che mai hanno lavorato in vita loro e mai capiranno cosa significa lottare per conquistare un piatto di pasta il giorno seguente.
Non sto dicendo che a un senzatetto basta dare un libro per risolvergli la vita, questo lo lascio ai buoni un tanto all’etto che fanno carità per mostrarsi agli altri, ma credetemi: non so se esserne felice o preoccupato, però la maggior parte dei clochard, dei galeotti e dei reietti ha letto molto. Ergo, la spocchia con cui si evitano i soggetti ‘inferiori’ è fuori luogo e vale la pena dar loro una chance.
Certo, se anche i nostri ragazzi sapessero come guardare la povertà, anche attraverso i libri, sì: sarebbero capaci di darle un significato e, forse un domani, una soluzione. E conoscendo i senzatetto che vivono nella loro città ci penserebbero due volte, prima di abbandonarsi a un destino che prevede soltanto il prendere in mano una cazzuola.